La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani fu adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948. Domani ricorrerà il 66° anniversario.
L’Italia, non facendo ancora parte dell’Organizzazione, costituita dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, non poté partecipare alla votazione e aderì in seguito alla Dichiarazione. «Dopo ottantaquattro giorni di sedute e dieci milioni di parole, – scrisse Guido Piovene, inviato del Corriere – i delegati hanno approvato la Convenzione contro il genocidio e la Carta dei diritti dell’uomo. Come spesso accade, i Paesi orientali hanno fatto blocco e si sono astenuti». Infatti, degli Stati membri, 48 votarono a favore, 8 si astennero (Unione Sovietica, Bielorussia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia, Ucraina, Arabia Saudita e Sud Africa), nessuno votò contro».
Il documento fu chiamato a ragion veduta “Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo”, dove per Dichiarazione s’intese rilevare che si trattava di un’affermazione solenne, fatta in forma ufficiale. Una dichiarazione di principi, perché si enunciavano norme fondamentali che si dichiarava di adottare e che s’intendeva far rispettare. Dichiarazione Universale perché avrebbe dovuto fondarsi sul consenso di tutti i popoli e valere per tutti gli uomini. Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo perché con essa erano proclamati i principi fondamentali della libertà politica e civile della persona umana. E tutto ciò con un atto internazionale, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che enunciava per la prima volta i principi fondamentali cui gli Stati aderenti s’impegnavano in tema di tutela di diritti delle donne e degli uomini come singoli e nelle formazioni sociali in cui vivono e manifestano la loro attività. La Dichiarazione Universale è adeguata a tutta l’esperienza contemporanea e intende dare determinazione ed espressione ai bisogni obiettivi ed elementari che l’umanità ha avvertito, attraverso alle esperienze fatte. Non nasce, quindi, da deduzioni astratte, o si riporta a vecchie metafisiche, o a vecchi cataloghi di diritto naturale, ma è dettata dai bisogni più certi delle nostre società e si commisura ai fatti più clamorosi e alle esigenze più vitali dell’umanità (S. Liaci, Fondamenti della dichiarazione universale dell’uomo, in La Luce degli Ideali, Barletta 2008). La Dichiarazione è organizzata attorno ad alcuni interessi fondamentali e fra questi gli interessi dell’individuo nella sua realtà fisica e spirituale, della sua esistenza, della sua libertà, della sua intimità, della sua vita religiosa, etica, culturale, della sua sicurezza sono previsti in un numeroso gruppo di articoli, nel primo dei quali, l’articolo 3, recita: «A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità».
Così come gli studiosi di paleontologia non escludono che i pregiudizi razziali possano essere altrettanto antichi quanto la storia a noi nota, alcuni storici sono convinti che i fenomeni razzisti siano onnipresenti nella storia e che in questa prospettiva il razzismo non si distingua dall’etnocentrismo e neppure dalla xenofobia.
Non solo, il razzismo è stato ridotto a un’ideologia biologica non egualitaria dell’Ottocento e quindi, come una cosa superata, ormai completamente superato dal sapere scientifico, universalmente condannato dopo la Shoà e il processo di Norimberga. Anche l’Unesco con la dichiarazione sulla razza del 26 settembre 1967 ha riconosciuto che le dottrine razziste sono prive di qualsiasi base scientifica. Queste conclusioni possono però fare abbassare la guardia a fronte alla possibilità che quelle teorie pseudoscientifiche possano essere oggetto di un uso strumentale, specialmente in momenti di grande difficoltà economica e sociale come quelli che stiamo vivendo.
Occorre fare una diagnosi del razzismo come si presenta oggi. O meglio identificare ad analizzare le nuove forme di razzismo attraverso le argomentazioni su cui si appoggiano e le pratiche sociali in cu si manifestano. Che non sempre risultano evidenti a uno sguardo ingenuo. Infatti, il razzismo non si presenta mai allo stato puro ma sempre in modo mascherato. Può essere una deriva del nazionalismo, dell’imperialismo coloniale, com’è stato specialmente in passato, dell’etnismo, dell’eugenismo, sostenuto da quelle correnti che affermavano una psicologia differenziale dell’intelligenza, nel darwinismo sociale, nel liberalismo economico selvaggio, come purtroppo succede oggigiorno. Com’è stato osservato «il razzismo si presenta sempre meno sotto forma di teoria esplicita, o sotto forma di atti flagranti accompagnati da chiare rivendicazioni o legittimazioni».
Si presenterà sempre più sotto forma di razzismo implicito: quasi una forma di compromesso tra le pulsioni di ostilità per il diverso e il rispetto della norma antirazzista, interiorizzata per effetto dell’educazione.
Ciò accade per numerose pratiche discriminatorie, alloggio e lavoro, che colpiscono alcune categorie d’immigrati ma che non sono mai rivendicate in nome della razza. Di questo mascheramento abbiamo buoni esempi nella storia anche in situazioni palesi di odio e di persecuzione razziale, vedi il caso Eichmann, il funzionario statale organizzatore dei convogli della morte e la definizione stessa del progetto di sterminio come “soluzione finale”.
Non mancano neppure in Italia gli esempi al riguardo. Franco Cuomo ha scritto un libro che tutti dovrebbero leggere: I Dieci – chi erano gli scienziati italiani che firmarono il manifesto della Razza nel 1938. Nessuno, oggi, più li ricorda, qualcuno continuò anche a fare carriera dopo la caduta del fascismo, come se nulla fosse successo. Il libro è dedicato al piccolo Davide e alla sorellina Sara di otto e tre anni deportati in Germania nel 1943, e mai più tornati, e ciò per effetto delle leggi razziali scaturite dal Manifesto ai cui, dieci primi firmatari si affiancarono più di trecento personalità (329 per l’esattezza, rappresentative di ogni campo di attività e sono tutti elencati nel libro a futura memoria).
Uno di questi dieci, Gaetano Azzariti, magistrato, primo presidente di Corte d’Appello, accettò inoltre di presiedere il Tribunale della Razza, collaborando attivamente con Buffarini Guidi, sottosegretario all’interno. Azzariti partecipò a una riunione tenuta dai direttori generali del Ministero dell’Interno, il 18 febbraio 1942, nel corso della quale si decise di privare di ogni efficacia l’istituto della “discriminazione”, che in qualche modo avrebbe dovuto attenuare l’oppressione nei confronti di alcune categorie di nati da matrimoni misti o appartenenti a gruppi altrimenti meritevoli, consentendo loro lo svolgimento di determinate attività.
Dopo l’8 settembre, ministro degli interni della Repubblica sociale, Buffarini Guidi, fu data esecuzione a tale orientamento con l’internamento di tutti gli ebrei anche se discriminati.
Buffarini Guidi fu giustiziato nel carcere di San Vittore il 10 luglio 1945, Gaetano Azzariti divenne presidente della Corte costituzionale nel 1957, tutrice dell’uguaglianza di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Il caso Azzariti era stato esaminato nel 1945 dalla Commissione di epurazione che ne chiese l’allontanamento dai suoi incarichi, ma una mano ignota scrisse sulla sentenza «non lo ritengo opportuno», poi Togliatti lo prenderà come collaboratore al Ministero della Giustizia. La storia è stata recentemente raccontata sul Corriere da Gian Antonio Stella. Toglieranno quel busto che lo ricorda al Palazzo dei Marescialli sede della Corte Costituzionale?
Il pericolo di questo razzismo strisciante, che colpisce e offende quando emerge in certe manifestazioni di partiti e movimenti, non va certamente prese sotto gamba, come espressione di cattivo gusto e spesso di pura volgarità, ma come la punta di un iceberg molto pericoloso, è sempre presente in ambienti e persone insospettabili. Lo stesso presidente della Commissione europea, Barrosu, denunciava «il ritorno esplicito o subdolo del nazionalismo, il minaccioso fenomeno del razzismo e della xenofobia, come causa della compromissione dei nostri sistemi sociali che formano la base del modello europeo di società». Si tratta, ormai, di una sfida globale e comune non si può rispondere che in modo globale e comune.
La crisi economica generale, le lotte tra poveri che imperversano nelle periferie delle grandi città europee accentuano questi fenomeni negli scontri verbali e qualche volta anche violenti, ma come sempre bisogna guardare più in alto, come raccomandava Barrosu, e finire soprattutto di autocensurarci nei nostri dibattiti e nelle nostre proposte per chiamare le cose con il loro vero nome.
(Dall’intervento di L. Milazzi al Convegno su «Razza razzismo e integrazione nel XXI secolo», promosso da GENS ADRIAE – Martedì 9 dicembre 2014, Trieste, Sala Conferenze del Volontariato.)