Carissimi Fratelli Scozzesi, Cavalieri di tutte le Valli, in prossimità dell’equinozio di primavera e dopo sedici mesi dall’inizio del mio mandato, tradirei la fiducia che mi fu accordata se, da “ funzionario” al servizio del Rito, non ponessi di nuovo all’ordine del giorno la necessità di riportare il sistema in equilibrio: contro il lasciar fare, il lasciar correre e contro l’influenza aggressiva delle credenze esacerbate all’interno delle sette.
Quest’attitudine da “funzionario” zelante non è velleitaria, né inopportuna. Se i funzionari se ne vanno, arrivano le tribù e i comitati a reclamare premi e privilegi. Velleitario è chi non vuole le conseguenze di ciò che vuole. Questa balaustra, dunque, non ha lo scopo né di esaltare né di criticare, ma di individuare le vie e i mezzi dell’agire insieme, per ricomporre le tendenze centrifughe. In un’epoca in cui la Storia sembra aver smarrito quella logica intrinseca che la spingeva verso il progresso e la libertà, dovremmo potenziare la capacità di pensare a un futuro collettivo: immaginare il futuro al di fuori di prospettive private e settoriali. Anche se nulla avvilisce i libertari più della parola d’ordine, giova ricordare che a riscontro di una vita organizzata, come contropartita, è vietato a una comunità di non vietare. E che ogni comunità costruisce il suo sacro in funzione delle sue mancanze e delle sue urgenze. Regere fines. Il primo atto costitutivo di una coalizione umana, transpersonale e duratura, è tracciare una frontiera: separare il dentro dal fuori, il sacro dal profano. Poi, darsi un racconto delle origini e quindi una genealogia, per riconoscersi e allearsi. Infine, stabilire una gerarchia interna, per assicurarsi nell’immediato la coesione e nel futuro una trasmissione possibile: cioè una cultura civilizzatrice. Ai quattro angoli del pianeta, questi quattro gesti, senza età e ineludibili, fondano ogni ingegneria associativa, nessuna esclusa, e formano il cuore di un vettore che trasforma le idee in forza materiale. Nasce in tal modo la sacralità! Anche se alcuni scorgono in essa una somma d’archetipi per un uomo reso malinconico dalla perdita del paradiso, la sacralità indica, più semplicemente e conformemente all’etimo, uno spazio comune, una prospettiva e una promessa, che nessuno può violare. Dentro questa frontiera la teologia non è più indispensabile e ogni individuo si sente membro di un’entità capace di agire collettivamente. Nello sforzo incessante di rendere la comunità più vera in se stessa, non si può fare a meno di nessuno: nessuna voce è inutile. Affinché poi i membri di una comunità restino uniti, a dispetto dei tanti fattori di disgregazione, la promessa di reciproca comprensione non rappresenta il punto di arrivo, ma il punto di partenza. Il sacro potrà passare al vaglio della critica solo quando si passa dalla norma che illumina al dogma che acceca. Ma ogni rifiuto di menzogna, ogni tentativo di portare alla luce un’impostura, un inganno, ogni constatazione del fatto che il re è nudo, deve trovare espressione solo nel mondo che condividiamo. Perché, se tutto è da rifare, sappiamo da dove cominciare. La nostra memoria del passato e la nostra attenzione al presente, con un’educazione paziente, rifonderanno un modello culturale di riferimento concreto e condiviso, a difesa della dignità della persona umana e a difesa della tradizione del RSAA. Auguro, con questo auspicio, buon lavoro a tutti.
8 aprile 2011